BASTA LAVORARE? – RECENSIONE a Lavorare non basta di Marianna Filandri
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Il testo di Marianna Filandrifornisce una risposta alla domanda che abbiamo posto a titolo di questa nota, e la correda in maniera chiara di elementi documentali esplicativi.
In apertura il testo che stiamo commentando sottolinea innanzitutto il carattere identificativo e classificatorio che normalmente attribuiamo al lavoro. L’attività lavorativa permette infatti di identificare e identificarci, e nello stesso tempo è anche uno dei fattori attraverso i quali noi classifichiamo socialmente le persone. Verrebbe da aggiungere a quanto sostiene l’autrice che del lavoro tendiamo spesso anche ad assumere una connotazione giudicante, connotando le persone, prima ancora che per il tipo di lavoro svolto, per il fatto di essere o meno lavoratori, valutazione che di solito poniamo anche alla base di atteggiamenti stigmatizzanti verso le persone che colpevolmente riteniamo disoccupate.
Quindi attraverso il lavoro identifichiamo e ci identifichiamo, classifichiamo, giudichiamo le persone e, per chi di noi si occupa di ricerca sociale, constatiamo come il lavoro continui ad essere uno dei grandi fattori di stratificazione sociale. Come ricorda l’autrice la “gerarchia si basa sull’idea che le opportunità e le condizioni di vita siano ampiamente definite dal lavoro che ciascuno svolge” (p. 3). Il lavoro diventa quindi un indicatore della posizione di classe sociale, tanto caro ai sociologi nelle loro analisi, la cui centralità spesso viene ribadita nelle ricerche che hanno ad oggetto la cultura del lavoro, o forse sarebbe meglio dire le culture del lavoro.
Sebbene, come Aris Accornero aveva sostenuto già all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, siamo ormai ampiamente dentro una fase della società dei lavori declinati al plurale che vede una significativa de-ideologizzazione del lavoro, notiamo ancora che il lavoro viene spesso individuato come uno dei fattori fondamentali nelle scale valoriali delle persone. Ma è soprattutto la popolazione giovanile a dimostrare una connotazione de-ideologizzata del lavoro, arrivando anche a considerarlo un aspetto importante, magari non al pari comunque di altri, come possono essere la famiglia e la sfera della socialità ristretta, in quanto strumento fondamentale, per taluni imprescindibile, per sostenere il progetto di vita. Siamo sicuramente alle prese da anni ormai con una relativizzazione del lavoro nella scala valoriale, relativizzazione che già le indagini dell’Istituto Iard sulla popolazione giovanile avevano individuato a partire dagli anni Ottanta, e ancor più in maniera marcata dagli anni Novanta del secolo scorso.
Per tornare al testo di Marianna Filandri rileviamo chi l’autrice parte dal presupposto che
il lavoro è visto come una condizione individuale necessaria, ma anche come un presupposto collettivamente imprescindibile – la piena occupazione – per garantire il benessere basato su una crescita economica stabile” (p. 4). Ma di fronte a tante certezze che vediamo contraddistinguere le riflessioni sul lavoro, ci mette in guardia dal considerare il lavoro un fattore bastevole per produrre nella fase attuale benessere individuale e collettivo. A questo proposito, individua quindi tre importanti cautele che vanno assolutamente tenute presenti quando intendiamo “considerare il lavoro come la soluzione a tutti i problemi (p. 5).
La prima cautela che dobbiamo mettere sul tavolo è quella che riguarda la condizione di povertà che ormai caratterizza un numero considerevole di lavoratori. Partendo dal presupposto che nel nostro paese una persona ogni tre nella fascia di età adulta si trova nella condizione di lavoratore, dobbiamo comunque partire da questa evidenza:
a fronte di una diffusione del lavoro non così ampia come avremmo potuto aspettarci – in Italia ci sono infatti più proprietari di case che lavoratori – è facile giungere alla conclusione che gli occupati solo soggetti senza difficoltà economiche. Ma non è affatto così è sempre più spesso si sente parlare di lavoratori poveri: uomini e donne che, pur occupati, si trovano a non avere abbastanza reddito per sostenere le spese necessarie per vivere. Sono i cosiddetti working poor, un fenomeno che in Europa negli ultimi anni interessa in media circa un lavoratore ogni dieci, in Italia uno ogni otto. (pp. 5-6)
Siamo quindi di fronte a un ossimoro, quello dell’essere poveri pur in una condizione di occupazione, una condizione che il modello taylor-fordista di fatto presentava con meno frequenza, essendo in quella fase storica il lavoro una fonte maggiore di garanzia di stabilità e di reddito continuo. La condizione di lavoratore povero, sostiene l’autrice, riguarda anche molti paesi non europei, ma spesso in quei casi ci si riferisse soprattutto alla persona povera e meno al fatto che costituisca anche un lavoratore. In questo caso sembra di riconoscere in quelle situazioni che al lavoro non venga attribuita necessariamente una connotazione di risorsa importante e necessaria per uscire da uno stato di povertà.
Tornando alla condizione dei paesi occidentali, e dell’Italia in particolare, percorrendo il testo che stiamo esaminando notiamo come quello da lavoro venga identificato come un reddito composto da tre elementi: il salario orario, il numero di ore lavorate e la continuità. Oltre alla minaccia diretta a danno di questi aspetti, sulla situazione di povertà lavorativa vanno a incidere anche altri fattori. In primo luogo, possiamo considerare la situazione familiare all’interno della quale vive il lavoratore, e pertanto l’esistenza o meno all’interno del nucleo di appartenenza di un secondo reddito o di altre fonti economiche di sostentamento o di integrazione del reddito da lavoro. Un altro aspetto che entra direttamente a connotare la condizione di povertà è relativo alle caratteristiche del contesto più generale di vita della persona: «la probabilità di essere lavoratori poveri cambia radicalmente se si vive e lavora in una regione ricca o povera e in un contesto urbano o non urbano» (p. 7)
La seconda cautela che mette in luce l’autrice è relativa al vissuto degli individui e pertanto alla loro percezione soggettiva della condizione nella quale si trovano. Da questo punto di vista un aspetto particolarmente importante da considerare è quello della percezione della sicurezza lavorativa strettamente legata alla stabilità del posto e alla continuità dell’esperienza lavorativa. L’aver introdotto forme contrattuali a termine, che pertanto definiscono una temporalità di interruzione dell’esperienza lavorativa fin dalla sua attivazione, determina sicuramente uno stato soggettivo di maggiore insicurezza nel vissuto delle persone. Un’insicurezza che, data la temporalità dell’esperienza lavorativa, viene a collegarsi a tanti altri fattori collaterali, quali ad esempio la difficoltà a fare formazione e a stabilizzare anche un tessuto relazionale, dentro e fuori luogo di lavoro, che può rappresentare un fattore di contenimento del vissuto dell’insicurezza.
Come spesso le ricerche stanno dimostrando, e come l’autrice ricorda fin dall’introduzione del testo, i lavoratori con un contratto a tempo determinato normalmente dimostrano un minor livello di soddisfazione per la loro condizione lavorativa. Questo vale anche nelle situazioni di parità di stipendio rispetto ai lavoratori con un contratto a tempo indeterminato. Solitamente però i lavoratori a termine sono meno pagati e
questo trattamento disuguale – condizioni lavorative diverse per svolgere la stessa mansione – porta alla percezione della disuguaglianza, con conseguenze negative per tutti, non solo per chi è assunto a tempo determinato. Una delle implicazioni più rilevanti riguarda i consumi. Indipendentemente dal reddito familiare effettivo, le decisioni sulla spesa dei nuclei si basano sul reddito previsto nel lungo periodo, il cosiddetto reddito permanente, ma non sul reddito attuale, detto corrente. (p. 9)
Non di rado, ricorda sempre l’autrice, gli occupati con un contratto a tempo determinato sono gli unici percettori del reddito familiare, e pertanto in questi casi la situazione di povertà si estende direttamente al nucleo e accresce un sentimento soggettivo di insicurezza e di precarietà.
La terza cautela che viene messa in luce all’interno del testo è quella che riguarda la disuguaglianza e tutti i meccanismi che a essa sono collegati e ne definiscono la riproduzione fra le diverse generazioni. Da questo punto di vista un oggetto privilegiato per le analisi economiche e sociologiche è quello della ricchezza, e in particolare dei meccanismi della sua distribuzione all’interno delle generazioni e fra le generazioni. La ricchezza è alla base della collocazione delle persone rispetto al mercato del lavoro e contrariamente a quanto siamo spesso portati a pensare, la ricchezza
è collegata al lavoro in modi che potremmo definire inattesi. Innanzitutto, non è il lavoro, o meglio il reddito da lavoro, la fonte principale della ricchezza, ma al contrario è la ricchezza che molto spesso influenza la partecipazione e le opportunità nel mercato del lavoro e consente ai più ricchi di accedere a posizioni lavorative meglio retribuite. Addirittura, in alcuni casi, ricevere una grande ricchezza, come una cospicua eredità, può portare a uscire dal mercato del lavoro. In secondo luogo, la ricchezza produce essa stessa ricchezza e rende quindi l’impegno e lo sforzo lavorativo molto meno rilevanti per accedere a maggiore benessere e sicurezza. Malgrado questa consapevolezza la tassazione dei redditi da patrimonio è ampiamente inferiore a quella dei redditi di lavoro. (pp. 9-10)
Un aspetto, quest’ultimo, che tende a premiare meno il merito e di fatto a dare valore a rendite immobiliari e finanziarie improduttive, piuttosto che all’attività lavorativa riconosciuta come fattore importante di produzione di beni e servizi legato a una retribuzione.
A partire da questi elementi possiamo allora trovare una risposta alla domanda iniziale dalla quale siamo partiti. Il lavoro non può essere ritenuto come lo strumento principale per uscire dalla povertà, per sostenere i consumi, per strutturare le condizioni e le opportunità di vita delle famiglie: «in altri termini, il lavoro non è in grado di reggere la centralità del funzionamento in salute della società» (p. 11).
È importante, pertanto, andare ad agire sul sistema di tassazione, considerando anche i patrimoni. Infatti, anche se ci troviamo in presenza di un alto tasso di occupazione, indicatore normalmente privilegiato per misurare lo stato di salute delle economie, se non disponiamo di un piano per il lavoro povero e stabile, che intervenga sulla continuità dell’esperienza lavorativa, e non prevediamo un aumento del gettito fiscale che generi una maggiore redistribuzione, non saremo in grado di affrontare il problema della povertà di una fascia della popolazione lavoratrice che nel corso di questi ultimi anni è andata progressivamente aumentando.
Fin dalla chiusura dell’introduzione l’autrice sintetizza molto bene l’esito del suo percorso di analisi e di riflessione:
ecco allora che lavorare non basta, ma è necessario che le condizioni del mercato del lavoro e il ruolo delle politiche pubbliche cambino mettendo al centro il benessere degli individui e delle famiglie. (p. 14)
Ripercorrendo il testo ci viene quindi da osservare che è il momento di agire da vari punti di vista. Innanzitutto, da dato “il giusto peso e ruolo” (p. 119) al lavoro nella vita delle persone e delle comunità, contrastando le retoriche diffuse a proposito dei lavoratori e dei poveri. All’interno di queste narrazioni la responsabilità è spesso scaricata sulla persona:
Va contrastata la convinzione che il lavoro e l’operosità abbiano un valore morale. Lavorare duramente non è un segno di integrità né tantomeno l’accumulo di ricchezza è un indicatore del fatto che ci si stia impegnando al massimo. (…) La moralità del lavoro è rimasta ampiamente radicata nel tessuto delle nostre società capitalistiche e si è associata più che al desiderio di salvezza a quello di poter spendere e divertirsi, potremmo dire, offrendo agli individui una risposta al desiderio di ricompensa edonica. Il lavoro consente di percepire un salario che permette di pagare per i consumi. E più si desidera consumare più si impiegano tempo e fatiche per guadagnare denaro. Il tempo nel quale riposare, svagarsi, curare il benessere relazionale è si incoraggiato nelle nostre società ma come consumo, con l’inconveniente che per goderne bisogna dedicare un maggiore impegno nel lavoro. In questa accezione è stata avanzata la tesi che il consumo di massa non abbia ucciso l’etica del lavoro, ma l’abbia semplicemente accresciuta, prendendo il posto della religione come principale distrazione della società dalle realtà più preoccupanti del lavoro. (pp. 120-121)
Chi lavora gode sicuramente di maggiore sicurezza economica, vive un minore isolamento sociale e normalmente gode di migliore salute. Risponde alla richiesta di autorealizzazione. Ma i mutamenti strutturali intervenuti nel mondo del lavoro (sotto il profilo organizzativo e non solo), ne minacciano la possibilità di costituire effettivamente un fattore di autodeterminazione. Perché innanzitutto deve prevedere all’interno dell’esperienza lavorativa uno spazio di autodeterminazione. In termini più generali sono chiamate in gioco le politiche del lavoro:
Focalizzandoci sulle politiche del lavoro ci sono almeno due linee di azioni che si possono attuare per contrastare il problema: concentrarsi sulla scarsità dell’occupazione in termini di quantità di lavoro – più opportunità occupazionali – e intervenire sulla qualità del lavoro – occupazioni per retribuite instabili. (p. 124)
Si tratta quindi di agire contestualmente sulla quantità di lavoro e sulla sua qualità, uscendo dalla retorica del facile entusiasmo che pervade quando constatiamo un incremento percentuale di alcune frazioni di punto del tasso di occupazione. Dobbiamo sempre chiederci quale occupazione stiamo creando, quale profilo di qualità di vita lavorativa consente di ottenere. Soprattutto in una fase di crescita della vulnerabilità sociale il lavoro costituisce ancora un mezzo per dare sicurezza, ma a patto che sia lavoro di qualità.
Autori
Giorgio Gosetti